La scomparsa di Sergio Marchionne, avvenuta nel luglio dello scorso anno, ha avuto, comprensibilmente, una notevole eco mediatica. Negli anni si sono accumulati numerosi scritti su di lui: ad esempio, il sito lavoce.info ha un dossier di oltre 50 articoli su Marchionne; il ‘caso Marchionne’ è stato studiato ad Harvard da Kaplan, e definito unico. Con questo breve articolo si vuole cogliere l’occasione per trarre qualche spunto ‘organizzativo’ dalla biografia cosmopolita del manager italiano di nascita e anglo-canadese di formazione (ma residente in Svizzera almeno dal 2002). Quando ha preso in mano la Fiat, questa perdeva 5,6 milioni di euro al giorno (dati R&s Mediobanca): in 14 anni i ricavi sono quintuplicati, la redditività allineata ai competitors e la solidità patrimoniale è stata centrata.
L’autorevolissima Enciclopedia Britannica lo definisce il ‘Canadian Italian business executive who, as CEO, reinvigorated Italian automobile manufacturer Fiat SpA”. Marchionne rappresenta quindi una storia manageriale di successo. La figura di Marchionne offre alcuni spunti per una riflessione sul modo di essere manager in Italia. Il panorama imprenditoriale e manageriale italiano infatti è caratterizzato ancora da familismo e clientelismo, che sono addirittura considerati dalla Scuola di Chicago le vere cause delle difficoltà dello sviluppo economico italiano (Pellegrino, Zingales, 2014). Il problema è che, nella cultura aziendale italiana, familismo e clientelismo sono considerati spesso valori da difendere (la famiglia non si tocca, il rapporto fiduciario con amici-fornitori è sacro etc.). Indubbiamente, Marchionne ha mostrato un approccio differente.
Leadership e cultura organizzativa
E allora, in cosa è stato diverso Marchionne? Il manager scomparso è stato per così dire anomalo almeno (non solo, ovviamente) per tre motivi: non ha puntato al compromesso nelle sue decisioni; ha improntato la sua gestione economico-finanziaria alla massima trasparenza; infine, ha mostrato un culto totale della privacy. Questa sua diversità potrebbe avere radici nella formazione dell’uomo e del manager, avvenuta a cavallo di almeno tre diverse culture: anglosassone, latina, e svizzera.
Il tema delle differenze culturali sul lavoro è tema diffuso, ma (di solito) non adeguatamente affrontato. Quando si considerano gli aspetti culturali che influenzano le decisioni nella vita organizzativa, si dovrebbe ricorre a strumenti scientifici, non a caricature da barzelletta (i tedeschi sono precisi ma poco fantasiosi… gli americani ingenui, gli italiani creativi e via stereotipando). Ad esempio, fin dagli anni ’80 è nota, aggiornata e disponibile la scala di Hofstede, che aiuta a valutare la distanza interculturale considerando il Paese di provenienza del manager. Perché le differenze culturali ci sono, eccome, ma nel considerarle non bisogna cadere nello stereotipo, nella caricatura o, peggio ancora, nel pregiudizio.
Compromesso vs. Decisione
Una prima caratteristica mostrata da Marchionne è la propensione alla decisione anziché al compromesso. Tecnicamente, decidere vuol dire ‘tagliar via’, quindi scegliere tra più opzioni. Ad esempio, nel corso della sua gestione Marchionne ha stilato una lista di stabilimenti FIAT da chiudere o ridimensionare, fra i quali quello di Termini Imerese in Sicilia, che occupava quasi 2.000 dipendenti. Analogamente, non ha esitato a rompere contemporaneamente con i Sindacati e con Confindustria, per perseguire i suoi obiettivi strategici.
Un approccio piuttosto anomalo in una cultura latina-italiana fatta di ricerca del consenso, incapacità/non volontà di decidere, politiche economiche orientate al compromesso che si traducono in interventi ‘a pioggia’ o in tagli lineari anziché mirati. Non decidere vuol spesso dire scontentare tutti nel tentativo di accontentare tutti, di non farsi dei nemici. È dagli anni ’60, invece che sappiamo che, dal punto di vista cognitivo, in caso di compromesso si dà evidenza a ciò a cui si è rinunciato. Il nostro cervello è caratterizzato dalla cosiddetta loss aversion (Kahneman & Tversky, 1979), a causa della quale il bicchiere lo vediamo sempre mezzo vuoto. Marchionne puntava al bicchiere pieno, senza compromessi, e alla fine lo ha ottenuto.
Trasparenza
Riguardo a bilanci, piani industriali, strategie, il contesto italiano è caratterizzato da opacità e azzardo morale. È tale infatti una situazione in cui un operatore (un avvocato, un consulente finanziario, un manager, il CdA della cooperativa, il gestore della rete autostradale) non rischia in proprio: se va bene ci guadagna, se va male ci rimette solo il cliente/committente/azionista. Questo moral hazard è dovuto alla mancanza di controllo da parte dei committenti, per scarsa volontà, fiducia ‘familistica o clientelistica’, o mancanza di competenze.
Marchionne nasce come ‘uomo dei numeri’: per più di vent’anni è stato un avvocato commercialista ed esperto nell’area fiscale; successivamente ha operato in servizi di ispezione, verifica e certificazione all’interno di aziende multinazionali. Tutta la sua carriera in FIAT è stata caratterizzata dalla trasparenza dei dati, dei bilanci, delle decisioni. Nel mondo anglosassone la trasparenza è considerata strategica perché alla base della giustizia organizzativa, in particolare quella relativa al livello di condivisione delle informazioni (giustizia informazionale). Da molti anni si sa che assicurare adeguati livelli di giustizia informazionale impatta positivamente sulla fiducia nell’azienda, commitment, tasso di turnover dei dipendenti, loro puntualità, contribuzione (Colquitt et al., 2013; Cropanzano et al., 2007). Non a caso, il gruppo di dirigenti aveva una fiducia totale in Marchionne.
La riservatezza
Molti commentatori sono rimasti sorpresi dalla decisione di Marchionne di tenere nascosta la sua gravissima malattia fino in pratica all’entrata in coma. Ha sorpreso la tutela maniacale della vita privata, aspetto anomalo per la cultura italo-latina, costruita sulla condivisione di aspetti personali e famigliari come segno di fiducia e attenzione per l’Altro. Le nostre imprese sono tutte ‘grandi famiglie’. “Un’impresa non fa affari con la personalità del lavoratore. L’occupazione lavorativa è un costrutto specifico che richiama una prestazione specifica, e nient’altro. Ogni tentativo di andare oltre questo è un’usurpazione, è immorale come lo spionaggio o una violazione della privacy. Un dipendente non deve nessuna lealtà, nessun amore, nessun atteggiamento – egli deve una prestazione e nient’altro” sosteneva Peter Drucker nel 1973. Nel mondo anglosassone, i dipendenti non sono ‘membri della famiglia’. Non si seleziona un manager come se si stesse selezionando il futuro marito della figlia, valutandone la provenienza geografica, l’allineamento ‘sui valori’, se ‘ispira fiducia’ ecc. Ad un manager si assegnano dei risultati misurabili, se li realizza bene, se no è fuori. Nel caso di Marchionne, a tutto ciò si somma la riservatezza svizzera come ragione d’esistere.
Conclusioni
Capacità di assumersi la responsabilità di una decisione che non sia compromesso, forte orientamento ai risultati e grande capacità di ricercare idee nuove senza condizionamenti dal passato e dal contesto. Trasparenza sui dati e sulle motivazioni della propria azione. Separazione maniacale della vita privata da quella professionale. Ovviamente non si sostiene che questi fattori siano gli unici ingredienti di una leadership di successo, ma possono fornire qualche spunto per Manager e HR delle nostre parti, spesso allineati su un modello manageriale molto diverso da quello anglo-svizzero di Marchionne, allo scopo di superare, almeno in parte, clientelismo e familismo. Non riconoscere modelli manageriali diversi dal proprio è il primo limite del relativismo culturale, un difetto che nessuna azienda può permettersi nel 2019. E, non a caso, il suo primo sintomo è quando l’Amministratore Delegato dice al consulente: ‘Lei ha ragione, ma qui da noi non può funzionare… la nostra azienda è diversa’.
Filippo Ferrari
Scientific Advisor Emme Delta Consulting
Adjunct Professor – Department of General Psychology, University of Padova
Adjunct Professor – School of Economics, Management and Statistics, University of Bologna